martedì 14 aprile 2020

Euro-Gold Standard

La storia è maestra di vita. Spesso però, troppo spesso, l'uomo la dimentica, la ignora o la svilisce relegandola a "passato".
Ancor prima che il coronavirus si scatenasse su un mondo impreparato, il ciclo del credito stava facendo cadere il mondo in recessione. È - lo ricordo ancora - post-crisi del 2007 (quella dei mutui sub-prime) che Eurolandia è in stagnazione secolare (con ovvie differenze tra un paese e l'altro). Covid-19 ha semplicemente peggiorato una situazione esistente, inceppando o rallentando le catene di produzione e approvigionamento. Ha messo in ginocchio invero anche democrazia ed equilibri socio-politici, ma "questa è un'altra storia e si dovrà raccontare un'altra volta".
Una recessione che rischia di venir trasformata dal coronavirus in un crollo, per reagire al quale molto verosimilmente non sarà sufficiente "l'accordo al ribasso" messo sul piatto dall'Eurogruppo che passa ancora oggi per la vetusta idea partita da Maastricht che "l'emissione monetaria è un malus e non può essere rivolta direttamente all'economia reale, men che mai al singolo Stato, ma solo attraverso prestiti per tramite del settore bancario e del mercato finanziario". Un'idea che ricorda tanto la frase di mariantonettiana memoria "se non hanno più pane, che mangino brioche".
I tanto incensati aiuti europei [a prestito] determineranno un aumento dell'indebitamento pubblico e privato, che giocoforza aprirà nuovi problemi, ovvero "rating del debito pubblico", "tagli lagrime e sangue", "discutibili riforme".
A causa dell'euro ci ritroviamo oggi con gli stessi problemi che affliggevano il Gold Standard: inutile negare le inquietanti similitudini tra il Sistema Aureo e il Sistema Monetario Europeo!
In parole spicce, il Gold Standard è stato un sistema monetario vigente fino al 1914 che ancorava, in maniera fissa, la convertibilità della cartomoneta alle riserve auree (che invasero l'Europa dalle "Indie occidentali") detenute da ogni Stato-nazione. Che è un modo, semplice, per calcolare quanta ricchezza c'è in un certo paese. Perché, avendo l'oro valore in quanto assoluta materialità, la ricchezza di ogni paese dipendeva in definitiva dalle riserve possedute dalla sua Banca centrale. Che poi l'accumulo di oro, e di ricchezza più in generale (ad es. prevalenza delle esportazioni sulle importazioni), ha sempre mosso popoli e Governi, sin dal mercantilismo, passando per il colonialismo, fino all'odierno imperialismo. Ma anche "questa è un'altra storia e si dovrà raccontare un'altra volta". Il Gold Standard aveva però un grosso svantaggio: l'essere legato ad una parità fissa col metallo prezioso impediva di creare moneta a piacimento e dunque legava le mani ai Governi (la ricchezza o c'era o non si poteva creare dal nulla), rivelandosi poco adatto a gestire gli shock. Tant'è vero che fu abbandonato (una prima volta) all'alba della I Guerra Mondiale, quando tutti i paesi si trovarono a dover finanziare lo sforzo bellico in disavanzo. E, tant'è vero (2) che l'economia statunitense si riprese dopo la Crisi del '29 grazie ad una svalutazione secca del -40% del dollaro rispetto all'oro.
Il Gold Standard ha avuto ritorni di fiamma tra le due Guerre, una nuova uscita nel 1931 e un remake nel 1947 con gli accordi di Bretton Woods, detto "Gold Exchange Standard" o più amichevolmente "Dollar Standard", in quanto la convertibilità fissa tra le valute nazionali era in dollari, i quali (e solo loro) erano legati ad un cambio predeterminato all'oro detenuto presso la FED. Il dollaro divenne la valuta principe negli scambi internazionali e moneta di riserva di valore. In seno a quegli accordi, peraltro vennero creati il FMI e la BIRS (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo), col compito di vigilare sulla stabilità monetaria e ricostituire un commercio internazionale aperto e multilaterale, s'è del caso anche aiutando i paesi in via di sviluppo tramite il finanziamento di progetti mirati.
La crisi petrolifera del 1971 sancì la definitiva morte del Gold Standard quando Nixon abolì la convertibilità del dollaro in oro, decretando di fatto la nascita del "sistema fluttuante" e del "corso forzoso". L'era, tutt'ora in corso fuori dall'Eurozona, del "flat money" (denaro e basta), in cui le Banche centrali regolano a discrezione la quantità di denaro circolante e il suo costo (il tasso ufficiale di sconto) sulla base di esigenze di liquidità, shock sistemici ed ordini governativi. Sicuramente vantaggi e svantaggi (tra cui inflazione e speculazione finanziaria), ma è stata la fine della convertibilità ad aver permesso il superamento della crisi petrolifera, il boom economico del decennio successivo, e un più rapido e agevole smobilizzo delle ricchezze da un paese all'altro.
L'euro è per funzionamento e scopi un gold standard-like. Le parità tra le varie valute nazionali sono state fissate all'interno dello SME2 ed ancorate ad una valuta sovranazionale, di proprietà della BCE, che è spacciata come moneta comune. La capacità di emettere moneta è stata sottratta da tempo agli Stati ed affidata alla BCE sulla base del folle assunto delle "vergini vestali del pareggio di bilancio di Eurolandia che ritengono che non si debba spendere per stimolare l'economia". Ma l'Eurozona non è mai stata un'area valutaria ottimale: non ha mai presentato quelle caratteristiche (flessibilità delle retribuzioni, mobilità del lavoro, omogeneità di ricchezza e convergenza dei tassi d'inflazione) indispensabili per creare un'area a cambi fissi efficiente, specie a motivo della profonda differenza economica e culturale tra i diversi Paesi membri. E dunque non sono derivati per tutti quei vantaggi tipici di un sistema a cambi fissi, ovvero inflazione contenuta, stabilità economica e crescita, credibilità. Ragionando, un paese che non è riuscito a giovarsi pienamente della crescita economica tanto sbandierata dallo slogan dell'euro, e che si trovi ad essere membro di una area monetaria NON ottimale, si assoggetta ad un sistema ove dunque è impedita qualunque svalutazione deflattiva o creazione di moneta (come invece fanno States, Cina, Regno Unito e Giappone). In assenza di queste possibilità, occorre ricorrere alla deflazione salariale: vale a dire, precarizzazione del lavoro e riduzione dei salari per recuperare almeno a livello di export quella competitività di prezzo che ci è negata dalla scarsa produttività, ovvero alla tassazione come strumento di riequilibrio della bilancia commerciale (riducendo la liquidità delle famiglie si riduce il consumo e dunque la domanda). È vero, a monte in Italia ci sono una questione culturale (siamo un popolo di navigatori, artisti, letterati, (ex) bancari... cazzo ci serve studiare) e quelle carenze strutturali causate da decenni di bassi investimenti anche nel privato e nel sostegno statale alle imprese che le ha rese impreparate al contesto globale. L'euro ha semplicemente amplificato i nostri deficit, ma tant'è: "la storia non si fa con i sé e con i ma".
Coi vincoli imposti dal pareggio di bilancio, l'Europa ha in pratica deciso autonomamente che la quantità di moneta di cui potranno disporre gli Stati membri in caso di shock dev'essere limitata alla quantità di prestiti erogati dal mercato e dunque, per converso, alla quantità di tasse che gli stessi saranno in grado di prelevare alla cittadinanza per rimborsare le obbligazioni comuni emesse a fronte degli aiuti.
L'austerity fa comodo alla Germania per esercitare il controllo sugli altri Stati membri, ma con ciò stiamo deprivando le generazioni future di un livello di qualità della vita e di una possibilità di essere felici che non ci saranno.
Oggi uscire dall'euro sarebbe - per usare le parole del Prof. Fabio Sdogati - "un terremoto". Al momento dell'uscita - visto il vergognoso paradigma in cui il mercato finanziario domina sui Governi - gestori di fondi comuni di investimento, capi di tesorerie, banche e intermediari finanziari di tutto il mondo smetterebbero di comprare e richiamerebbero tutti i crediti erogati. Posto che i debiti contratti andranno ripagati in euro o in dollari, perché nessuno accetterà carta di nuovo (o vecchio) conio: non i Governi, non i mercati finanziari, non le imprese. Che, come sempre, occorrerà procurarsi in uno di due modi: esportando più di quanto non s'importi, o prendendo a prestito. E chi, dal resto del mondo, darebbe a prestito alle imprese, al Governo, ai residenti di un paese (magari oggi modesto com'è divenuta l'Italia che, sebbene ancora al tavolo dei G8 è scivolata davanti a Repubblica Ceca, Slovenia e Slovacchia, in zona retrocessione per percentuale di laureati e di occupati, neanche in classifica per l'adeguamento all'era digitale) che uscendo dall'Unione Economica e Monetaria si troverebbe da sola di fronte alla globalizzazione, anzi peggio, dinnanzi alla "regionalizzazione" del mercato globale [ossia frammentazione in macroblocchi con presenza di grossi attori e inevitabili accordi commerciali].
Dunque cosa fare? rivedere i princìpi dell'Europa, i trattati, le solidarietà, abolendo i parametri di Maastricht, il pareggio di bilancio e gli artt. 123 e 130 del TFUE che, l'uno proibisce alle Banche centrali di finanziare i deficit statali e l'altro sancisce l'indipendenza della BCE dai Governi nazionali, affinché il SEBC possa acquistare i titoli del debito pubblico nazionali non collocati sul mercato al fine di emettere liquidità reale.

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